Un grande artista antifascista: Visconti e il cinema della Resistenza
Uno scritto datato 1960 di Ugo Casiraghi seguito da una recensione del Rocco
Se c'è un regista cinematografico, in Italia, la cui attività possa ben dirsi nata e cresciuta sotto lo spirito della Resistenza, questi è proprio Luchino Visconti. La sua stessa iniziazione al cinema parla chiaro. Mentre il fascismo dilagava in Europa, mentre i nostri cineasti erano soffocati da un regime ormai padrone della produzione, il giovane Visconti viveva nella Parigi del Fronte Popolare e imparava il mestiere alla scuola di Jean Renoir che, giunto al culmine della propria arte, realizzava film su sottoscrizione del pubblico e di propaganda per il Partito comunista francese. Per esempio La vita è nostra (tuttora inedito in Italia) mostrava le lotte sociali del popolo fratello, rievocava la resistenza dei comunisti e dei socialisti uniti contro le croci di ferro fasciste del colonnello De La Roque, documentava gli scontri tra manifestanti e polizia nella notte del 9 febbraio 1934. Al forte corteo popolare che rendeva onore alle vittime operaie, si saldava nel montaggio il purissimo volto di un soldato etiope caduto, un ammonimento e, insieme, un folgorante giudizio storico.
In questo ambiente si formò Visconti. “Un francese che vive in Francia – gli diceva Renoir – non può fare opera d'arte se non appoggiandosi alle tradizioni degli uomini che hanno vissuto come lui. L'uomo – diceva – deve tutto al suolo che lo nutre, alle condizioni di vita che formano il suo corpo e il suo cervello, ai paesaggi che durante tutto il giorno sfilano dinanzi ai suoi occhi”.
I film – gli insegnava ancora - “non devono essere ne storici ne moderni, ma più semplicemente attuali”. E chi parlava era l'autore della Marsigliese tanti anni dopo. Il suo appassionato allievo avrebbe realizzato Senso nello spirito del maestro.
Quando tornò in Italia, Visconti si unì subito alla fronda antifascista che serpeggiava persino sulle pagine di una rivista di cinema, nominalmente diretta dal figlio di Mussolini. Divenne anzi il capo del gruppo più deciso, e con i suoi giovani compagni Mario Alicata, Giuseppe De Santis, Gianni Puccini, Antonio Pietrangeli realizzò un film-manifesto, un film-bomba: Ossessione. Sullo schermo, per la prima volta in modo coerenti, irrompeva la realtà italiana che il cinema del ventennio aveva nascosta. Un eroe di Ossessione era un operaio disoccupato.
Visconti preferisce studiare e lavorare che scrivere, preferisce le opere alle teorie. Ma quando, in quegli anni, prese la penna per chiarire le proprie intenzioni e le proprie idee, scrisse qualcosa di definitivo, qualcosa che rimane valido ancor oggi, sia per lui che per la cultura italiana sbocciata dalla Resistenza.
“Il cinema che mi interessa – disse – è un cinema antropomorfico”, un cinema, dunque, a immagine e misura dell'uomo. Che cos'è l'attività creativa per Visconti? La “opera di un uomo vivente in mezzo agli uomini”. E ciò, egli precisa, non si riferisce “soltanto al dominio dell'artista”. Poiché “ogni lavoratore, vivendo, crea: sempre che egli possa vivere. Cioè: sempre che le condizioni della sua giornata siano libere e aperte: per l'artista come per l'artigiano e l'operaio”.
“Che cosa mi ha portato a un'attività creativa nel cinema?” Egli si chiede. E risponde (si badi, durante il fascismo) con parole di una grande onestà intellettuale, che dovrebbe essere meditata: “Non il richiamo prepotente di una pretesa vocazione, concetto romantico lontano dalla nostra realtà attuale, termine astratto, coniato a comodo degli artisti per contrapporre il privilegio della loro attività a quella degli altri uomini. Poiché la vocazione non esiste ma esiste la coscienza della propria esperienza, lo sviluppo dialettico della vita di un uomo al contatto con gli altri uomini. Il cinema mi ha attirato perché in esso confluiscono e si coordinano slanci e esigenze di molti, tesi per un lavoro complessivo migliore. È chiaro come la responsabilità umana del regista ne risulti straordinariamente intensa, ma, purché egli non sia corrotto da una decadentistica visione del mondo, proprio da essa verrà indirizzato sulla strada più giusta”.
Come non usa scrivere, così non è facile indurre Visconti a parlare di se stesso. Molti sanno che durante l'occupazione nazista di Roma, Luchino fu arrestato, incarcerato in una delle pensioni della famigerata banda Koch, torturato, condannato alla fucilazione, salvato in extremis. A testimonianza di quel nobile periodo della sua vita resta soltanto un suo progetto di film, Pensione Oltremare, uno dei non pochi ch'egli non riuscì mai a realizzare, che sviluppa su ricordi personali un tema affrontato da Rossellini nella seconda parte di Roma Città aperta, e alcune pagine del quale si possono leggere nella bella antologia Cinema e Resistenza di Giovanni Vento e Massimo Mida. Anche nelle immagini impressioni, da lui colte come documentarista, del processo al sanguinario questore di Roma, e inserite nel film collettivo Giorni di gloria le cui copie sono naturalmente sparite dalla circolazione anche culturale, era possibile avvertire un indiretto riflesso di quella taciuta esperienza.
Tutti conoscono invece la storia del cinema italiano del dopoguerra e il posto di guida che in essa ha avuto, e continua a tenere, Luchino Visconti. Comunque si vogliono giudicare, sotto qualsiasi prospettiva si vogliano esaminare, La terra trema (1948), Bellissima (1951), Senso (1954) ed ora Rocco e i suoi fratelli, sono le tappe fondamentali di un cammino artistico che si pone sempre, come il regista voleva, in rapporto dialettico con la società nazionale, che ne analizza i motivi di regresso e di progresso, che indica sempre nuove strade (ad eccezione, forse, del film Le notti bianche, nel 1957); e che in Rocco è approdato, con una umanità più distesa, a una concezione del 'romanzo' cinematografico quale da parecchi anni veniva auspicata nel nostro Paese, e a cui il suo autore non sarebbe giunto se, in elevata e mai interrotta polemica con il provincialismo imposto alla nazione, egli, nella scelta e nell'interpretazione dei suoi testi come regista teatrale, e nella concezione dei suoi film come regista cinematografico, non si fosse costantemente abbeverato alle fonti della cultura mondiale, del passato e del presente, spaziando nei secoli e nelle letterature al solo fine di verificarne, o imporne, la contemporaneità.
In questo senso profondo va, nostro avviso, interpretato lo “spirito di resistenza”, di cui la complessa attività di questo grande regista ci appare impegnata. Resistenza al tentativo di aggregare la cultura al piano di restaurazione politica; resistenza alla campagna per “distruzione della ragione” in vigore oggi come durante il fascismo, resistenza al vaniloquio artistico che crede di interpretare la “confusione” del mondo attuale, mentre nella maggioranza dei casi non è che il riflesso di una concezione oscurantista della storia e della vita.
Come stupirsi, dunque, che questo artista, pur così raffinato e aristocratico secondo alcuni, sia stato invece il più ignorato e combattuto nelle premiazioni ufficiali e non soltanto dalle giurie delle Mostre veneziane del Cinema, ma talvolta persino dalle giurie dei giornalisti cinematografici italiani. Anzi, ci sarebbe da stupirsi del contrario. Per fortuna, nemmeno Chaplin, Eisenstein o Von Stroheim avrebbero goduto, o godettero effettivamente ai loro tempi, del livore di quelle giurie. Nella prossima settimana Rocco e i suoi fratelli verrà offerto al grande pubblico italiano, che avrà così davanti una delle opere più forti e attuali di un artista laico e democratico, partigiano implacabile della verità, combattente irriducibile contro ogni forma d oppressione, di ipocrisia e di evasione.
Da L'Unità, 7 ottobre 1960
Rocco torna vincitore
Rocco e i suoi fratelli nasceva in Visconti da svariate sollecitazioni. Secondo noi, la primissima era un bisogno di sfida nei riguardi di Fellini, che aveva aperto il I960 con il clamoroso exploit della Dolce vita. Non sarà facile per i giovani rendersi conto dello choc che quest'opera, anche linguisticamente innovatrice, aveva provocato in Italia: era impressione diffusa che avesse fatto terra bruciata, che fosse impossibile confrontarsi subito con la sua carica dì contestazione radicale di un certo modo di far cinema.
Ebbene, mentre Antonioni rispondeva da par suo con L’avventura, Visconti ribatteva allo scatenato rivale punto su punto: anche lui con un metraggio di tre ore, con l'ambientazione in una metropoli (Milano dopo Roma), con un affresco moderno affollato di personaggi e suddiviso in capitoli, con un racconto a forti tinte e di sicuro impatto popolare. E venendo, in certo senso, a ristabilire l’equilibrio che La dolce vita sembrava aver turbato, stravolto: a far pesare i diritti della ragione oltre a quelli dell’intuizione, i diritti della riflessione oltre a quelli della suggestione: a contrapporre alla barocca, esplosiva potenza del giornalista che fiuta l'aria del tempo, il realismo critico, vasto e profondo dello scrittore che percorre le stesse vie del grande romanzo.
Rocco e i suoi fratelli chiuse dunque ad alta temperatura drammatica quell'indimenticabile 1960, già segnato in cinema da due tappe storiche, nella vita sociale da tragici conflitti (i morti di Reggio Emilia, di Palermo) in quella politica dall'ultimo colpo di coda del centrismo (il tentato golpe Tambroni). Scandalosamente, la Mostra di Venezia non aveva premiato il film con il Leone d'oro che gli spettava di diritto, come in passato non aveva premiato Senso, e nel 1948 non aveva premiato La terra trema. Visconti continuava a essere il regista di opposizione al regime, colui che il regime doveva umiliare. Tanto più che c'era un discorso lasciato in sospeso proprio da La terra trema, che come tutti sanno, doveva essere solo il primo episodio (quello del mare) di una trilogia sociale che Visconti non aveva mai potuto completare. E qui scattava la seconda, intensa sollecitazione per Rocco: la necessità di continuare il discorso meridionalista rimasto per così dire a mezzo, di ri-abbeverarsi alla fonte verghiana dei Malavoglia (una «ossessione», per il regista) riproponendo su nuove basi, nuovo terreno e nuove suggestioni letterarie, praticamente lo stesso nucleo familiare, teso a un'identica lotta per la sopravvivenza.
Storia di una famiglia e di un'emigrazione interna, il film confronta la madre lucana e i suoi cinque figli (cinque come le dita di una mano) alla «civiltà» del Nord industriale, con il suo consumismo, il suo benessere e il suo sport (la boxe), con le possibilità di integrazione e di successo che sembra offrire a chi viene dal sottosviluppo. Ma l'integrazione non è facile e lo sviluppo non sempre è di segno positivo, anzi. La famiglia si smembra e ciascuno dei fratelli ha un diverso destino, che non elimina il tragico.
Nel ventaglio delle possibilità prevalgono (almeno come consistenza di personaggi) le due punte estreme: il fratello che si perde, Simone, e il fratello che si sacrifica, Rocco: «malvagità» e «bontà» entrambe eccessive, entrambe storicamente non più funzionali, anzi inutili e dannose. Ma sono questi vinti che, come sempre, Visconti sente più vicino, che vede lucidamente come eroi negativi, ma ai quali riesce a conferire statura artistica (come del resto alla donna — Nadia, la prostituta lombarda — che li unisce e li divide).
Il cuore e la ragione, che grande enigma, come diceva Chaplin nel suo film più lungo, Luci della ribalta. Ma per Visconti non è poi tanto un enigma; e oggi, a vent'anni di distanza, sarà forse più agevole verificarlo in Rocco. Il suo cuore è per loro, per gli sconfitti del passato: mentre solo la sua ragione è per gli altri. Non tanto per Vincenzo, che avendo preceduto i fratelli a Milano è stato il primo a perdere la propria identità e a «imborghesirsi»: quanto per Ciro, l'operaio dell’Alfa, colui che sa assai bene giudicare e Simone e Rocco, ma assai meno vedere autocriticamente nel proprio presente: o per Luca il più piccolo, prefigurazione emblematica di un avvenire, che tuttavia rimane abbastanza indistinto, come un vago progetto ideale.
Gli influssi letterari erano stati molteplici, anche se nel complesso ben fusi in un disegno unitario. Da Verga a Rocco Scotellaro (ricordato, infatti, anche nel nome del protagonista), passa la tradizione meridionalistica, per il Testori del Ponte della Ghisolfa quella lombarda. Ma c'erano modelli anche europei: il Rocco di Alain Delon, dolcissimo nel colloquio con Nadia durante il servizio militare a Civitavecchia, era costruito sull'idiota dostoievskiano: e la diaspora familiare teneva presente un altro dei nomi tutelari di Visconti: il Thomas Mann di Giuseppe e i suoi fratelli. Cineromanzo classicamente strutturato, melodramma che si erge a tragedia greca, denuncia realistica in un tessuto decadente: tutto ciò confluiva in questo film, facendone uno dei migliori del suo autore e anche un segnale di svolta per la democrazia italiana e per il suo cinema. Di svolta ma, contemporaneamente, di allarme: la testimonianza alta e appassionata di una dura crisi di transizione.
Da L'Unità, 5 marzo 1980