Road to Ritrovato #1: Mikio Naruse
Traduzione di due scritti di Sadao Yamane e Jacques Rancière sul regista giapponese
Il ritmo delle emozioni (Sadao Yamane)
Tutti i film di Mikio Naruse possiedono un ritmo meraviglioso e scorrono senza intoppi. Gli eventi che si susseguono sullo schermo appaiono come cose naturali, non lasciando trasparire l'esistenza di un artificio. Eppure, com’è ovvio, quanto viene mostrato è frutto d’immaginazione, e l’assenza apparente di artifici è essa stessa il prodotto di un abile artifice. Nei film di Naruse, dunque, agisce un artificio potentissimo, capace persino di cancellare le proprie tracce. È proprio qui che risiede il loro fascino.
Prendiamo ad esempio una scena verso la conclusione di The Girl in the Rumor (Uwasa no musume, 1935): la sorella minore della protagonista incontra la sua vera madre, che aveva sempre creduto essere la concubina del padre. Condotta da questi nella sala del secondo piano, le viene presentata la donna con queste parole: «Ecco tua madre, colei che ti ha dato alla luce». La giovane è sconvolta. Poi entra la protagonista, la sorella maggiore, con un vassoio di tè. Mentre il padre e le due figlie sono in piedi, la madre, seduta, alza lo sguardo in silenzio. La sorella minore e il padre parlano tra di loro mentre la maggiore osserva ansiosamente a lato. la ragazza rifiuta di accettare la verità, mentre lui la invita rabbiosamente a farlo. La sorella maggiore cerca di placarli, e i tre si agitano lì in piedi. A un tratto, la madre si alza. In quell’istante preciso, la sorella minore si divincola con forza e fugge, seguita dall’altra. Padre e figlia si fronteggiano sulla soglia e i tre si azzuffano in uno spazio ristretto. Intanto, i movimenti della macchina da presa, le angolazioni e i tagli si susseguono con frequenza. In questo turbinio, spicca il contrasto tra i tre personaggi in piedi e la madre seduta. Si sviluppa così un dramma tra dinamismo e staticità. Va ricordato che nelle case giapponesi tradizionali la vita si svolge prevalentemente seduti sui tatami. Pertanto, il semplice fatto di stare in piedi a parlare davanti a una donna seduta, di litigare restando in posizione eretta, assume già un valore drammatico. Come spesso accade, se messa per iscritto, la scena può apparire complessa, ma sullo schermo si consuma in un attimo. Naturalmente, trattandosi del culmine emotivo, emerge la rabbia tra il padre e la sorella minore. Eppure, l’impressione che si ricava è che, nel contrasto tra movimento e immobilità, i venti tempestosi delle relazioni umane scorrano via dolcemente. Anzi, proprio perché la descrizione è così fluida, genera una forza potente in modo silenzioso.
In Wife! Be Like a Rose! (Tsuma yo bara no yo ni, 1935), in una scena vicina alla conclusione, la protagonista si reca a casa della seconda moglie del padre e osserva come vivono la donna e i suoi figli (che in realtà sono anche suoi fratellastri). In questo modo, la protagonista si libera dei pregiudizi che aveva in precedenza. Le posture in piedi e sedute si combinano in modo magistrale. La donna riflette tra sé e sé mentre cammina lentamente nell'antica abitazione giapponese. Poi si dirige verso la cucina, dove il pavimento è in terra battuta, e ringrazia la seconda moglie per averle inviato del denaro. Per tutto il tempo, entrambe restano in piedi. La sorellastra, seduta, cuce e ascolta la loro conversazione. Quando la figlia della prima moglie la ringrazia, la seconda moglie si scusa per il suo comportamento. Qui si inserisce una scena in cui il padre e il fratellino si immergono in una sorgente termale. La matrigna, in lacrime, si siede sull’agarikamachi (il gradino tra il pavimento in terra e la stanza con i tatami) e confessa alla protagonista quanto si senta in colpa. La protagonista, ancora in piedi, la osserva, ma poi si siede accanto a lei sul gradino e ammette di aver forse sbagliato a voler riportare a casa il padre. Gli elementi tipici della casa rurale giapponese (la stanza con i tatami, il pavimento in terra battuta e l’agarikamachi che li separa) sono utilizzati con maestria. Utilizzandoli come palcoscenico, permettono un’alternanza fluida di posture, conducendo al culmine del dramma. Anche qui, è evidente come la fluidità contribuisca a descrivere l’intensità emotiva del film.
Un’analoga dinamica compare in Sincerity (Magokoro, 1939). Quando la bambina chiede a sua nonna del padre defunto, questa si siede di fronte a lei e inizia a raccontarle quanto misero fosse quell’uomo. La madre, che per un momento si era allontanata per riordinare dopo pranzo, sente le parole della suocera e rientra nella stanza per rimproverarla. La bambina si alza e abbraccia la madre, mentre la nonna, seduta, continua a parlare. L’alternarsi delle posture in piedi e sedute plasma il dramma.
Una simile descrizione si adatta perfettamente a una scena di Every-Night Dreams (Yogoto no yume, 1933), film muto. Poco dopo l’inizio, la protagonista rientra nella sua stanza e vi trova l’uomo che l’aveva abbandonata con il loro bambino. In questa scena, più che il dialogo in sé, è il fatto che i due parlino in piedi in una stanza minuscola a comunicare la gravità della situazione. Poco dopo, discutono della possibilità di trovare lavoro accovacciati, postura che tradisce la loro intimità, tanto che un’amica della protagonista lo fa notare con una battuta.
Espressioni ancora più drammatiche si trovano in A Woman's Sorrows (Nyonin aishu, 1937), soprattutto per quanto riguarda i gesti e le posture all’interno di una casa giapponese. Innanzitutto, c’è il ritratto della protagonista, una giovane sposa, che si affanna come un topolino in una ruota, correndo tra le stanze e il corridoio: prepara i pasti per tutta la famiglia, massaggia le spalle del suocero, chiede prestiti alla cognata, aiuta il cognato più giovane a studiare, risponde al telefono, porta l’inalatore alla suocera quando richiesto, accoglie un ospite venuto a trovare il suocero e risponde a un’altra cognata che le chiede di svegliarla. Questa scena sola basta a capire che tipo di matrimonio sia il suo. La scena si conclude con il marito che la chiama da un bar, inventando una scusa per rimane fuori fino a tardi. Poi c’è un’altra sequenza in cui il marito la interroga in salotto. La protagonista aveva incontrato il cognato per strada e, per compassione, non ne aveva parlato in casa. Il marito la tormenta chiedendole perché non gliel’abbia detto. Frattanto, il fratello minore della protagonista è in visita e sta giocando con il cognato nella stanza accanto. Quest’ultimo, incuriosito dalle voci, apre la porta scorrevole e sbircia dentro, ripetendo il gesto due volte, in quello spazio tipicamente giapponese dove le stanze sono divise solo da porte scorrevoli. Queste scene delineano con chiarezza la condizione della protagonista. Verso la fine del film, nello stesso ampio soggiorno, il marito la interroga severamente riguardo al marito della cognata. Sono presenti anche la cognata e la suocera. Tutti e quattro, in piedi, si muovono agitati, mentre un’altra cognata e il cognato più giovane osservano in piedi dalla stanza accanto. A un certo punto, la protagonista rivela alla cognata dove si trova suo marito, e questa esce di corsa. Il marito continua a tormentarla, la spinge. Arriva il suocero, che si allontana in fretta con la suocera. Il marito insiste, la strattona. La protagonista pronuncia le sue ultime parole, lascia la stanza e poi la casa. Qui, l’ampio soggiorno diventa il luogo in cui si svela la realtà del suo matrimonio. Nessuno è seduto: tutti sono in piedi sul tatami, muovendosi freneticamente, in una situazione anomala che culmina nello scontro finale. Sono molti i film che descrivono le dinamiche familiari, gli attriti e i conflitti coniugali, ma pochi, come A Woman's Sorrows, sovrappongono queste tematiche all'architettura stessa della casa giapponese. Oltre a questi elementi, nel film c’è un uso sapiente della danza. Poco prima del matrimonio, la madre della protagonista le confessa di essere preoccupata perché andrà a vivere in una casa moderna. La figlia, allora, balla con la cugina sul posto, lasciandola stupita. Nonostante il gesto, l’espressione della protagonista tradisce una certa malinconia. Ma ciò che colpisce è soprattutto l’innaturalità di ballare in una piccola stanza con tatami. Più avanti, dopo il matrimonio, la cognata si diverte a ballare con le amiche in una stanza occidentale, con sedie, in netto contrasto con lo stile giapponese.
Finora ci siamo concentrati sulle case tradizionali, ma per quanto riguarda le posture, i movimenti delle persone risultano ancora più espressivi. La scena della panchina nel cortile della scuola in Sincerity, per esempio, è girata all’aperto, e sono i cambiamenti di postura delle due ragazze a creare il dramma. Sul letto del fiume, dove le due osservano i genitori, il contrasto e l’alternarsi delle posture dei quattro contribuiscono a costruire la tensione degli sguardi. Anche in Tsuruhachi and Tsurujiro (Tsuruhachi Tsurujirō, 1938) compare una scena su una panchina: i due protagonisti passeggiano in un resort termale, si siedono su una panchina in riva al lago, poi si alzano e camminano. I loro movimenti mutano continuamente, e le posture durante il dialogo riflettono le variazioni emotive. Alla fine, seduti fianco a fianco, si dichiarano il loro reciproco amore.
The Road I Travel with You (Kimi to yuku michi, 1936) è un dramma su una madre e i suoi due figli che vivono in una casa vacanze sul mare. Tratto da un’opera teatrale, il film è ambientato perlopiù in una casa in stile occidentale. Anche qui, il contrasto e il cambio di postura dei personaggi (in piedi mentre conversano, seduti sulle sedie, in movimento) compongono il dramma. Combinando i gesti dei corpi con cambi d’inquadratura, angolazioni di ripresa e posizioni della macchina da presa, la regia crea una fluida transizione. Quando la tensione raggiunge il culmine all'interno della casa, la scena si sposta all’esterno, con la camera che riprende attraverso la finestra, modificando la linea dello sguardo per enfatizzare ulteriormente i movimenti.
Un altro film, Avalanche (Nadare, 1937), descrive il conflitto interiore di un giovane borghese riguardo al matrimonio. Il set è una sontuosa villa occidentale, e come in The Road I Travel with You, i gesti dei personaggi e i movimenti di macchina sono impressionanti. Quando il protagonista è in preda all’angoscia, lo schermo si copre di una patina simile a una pellicola sottile. All’epoca, questa tecnica fu criticata e derisa, ma è chiaramente un sovrapporsi di azione soggettiva e movimento della macchina da presa.
Da un lato ci sono i movimenti dei corpi, le linee degli sguardi, dall’altro la posizione della macchina da presa, le angolazioni di ripresa e il montaggio. Chiamiamo i primi «azione soggettiva» e i secondi «azione descrittiva». Nei film di Naruse, questi due tipi di azioni si sovrappongono con precisione, creando un «ritmo delle emozioni» raffinato e fluido. Prendiamo Sincerity: c’è il «ritmo delle emozioni» della bambina che sbircia nel passato amoroso della madre. O A Woman's Sorrows, dove domina il «ritmo» della donna che entra in un matrimonio senza amore. In entrambi i casi, questo ritmo commuove lo spettatore. L’espressione «ritmo delle emozioni» è presa da un saggio di Yoko Mizuki, sceneggiatrice che collaborò con Naruse nel dopoguerra. Queste parole, però, racchiudono l’essenza di tutta la filmografia del regista.
Spesso, i movimenti nel cinema appaiono come azioni di trasformazione dello spazio. Ad esempio, verso la fine di Man of the House (Tochuken Kumoemon, 1936), il protagonista litiga con amici e membri del teatro, spinto dal pensiero del figlio. L’ex maestro e l’attuale manager lo osservano ansiosi dal corridoio che si affaccia sul giardino. Poi il manager riceve una telefonata: la moglie dell’eroe è morta, e lui scoppia in lacrime. Qui, il dinamismo che collega i due spazi interni genera un «ritmo delle emozioni» incalzante.
Questa maestria nel sovrapporre «azione soggettiva» e «azione descrittiva» affonda le sue radici nella potenza espressiva del cinema muto. In Three Sisters with Maiden Hearts (Otome-gokoro sannin shimai, 1935), uno dei primi film parlati, si usano effetti sonori come lo shamisen (uno strumento musicale giapponese a tre corde), i dischi e i treni. Ad esempio, nella scena in cui la protagonista assiste alla violenza dell’amante della sorella minore, i movimenti di macchina che collegano le due stanze derivano chiaramente dal muto. Lo stesso vale per: l’umorismo del garzone che lavora in un negozio di sakè e rubacchia merce prima di schiacciare un pisolino (The Girl in the Rumor); la commovente chiusura di The Whole Family Works (Hatarakku ikka, 1939), con il completo ribaltamento nella stanzina; o il finale liberatorio di Travelling Actors (Tabi yakusha, 1940), dove un cavallo finto insegue per strada uno vero in pieno giorno.
Ma è in Hideko the Bus Conductor (Hideko no shashō-san, 1941) che queste espressioni si esplicitano maggiormente. Qui non c’è quasi nulla di drammatico. Eppure, proprio per questo, il film è straordinariamente affascinante. La storia segue una bigliettaia che tenta di attirare passeggeri inventandosi informazioni turistiche su luoghi famosi. Nonostante i suoi sforzi, l’azienda fallisce e l’autobus ha un incidente. Elementi che, in un film normale, scatenerebbero un dramma. Eppure, sullo schermo, tutto scorre con piacevole fluidità. Allora, se non c’è dramma, cos’è che tiene incollati? Non può che essere il movimento puro del cinema. Nonostante gli elementi drammatici, è la sovrapposizione di «azione soggettiva» e «azione descrittiva», tipica di Naruse, a brillare. E il «ritmo delle emozioni» che ne scaturisce ci commuove profondamente.
Naruse è rimasto coerente con questo stile per tutta la carriera. Persino di ciò che rimane di Shanghai Moon (Shanhai no tsuki, 1941), quei 53 minuti superstiti rimangono molto suggestivi. Sulla carta, è un film di propaganda che descrive le attività dei giapponesi che combattono i movimenti anti-Giappone a Shanghai, con una spia cinese infiltrata. Eppure, sullo schermo, questa donna brilla come una tragica eroina. Questo effetto è forse creato dal fatto che stiamo guardando il film 50 anni dopo la fine della guerra? Non credo sia per quello. Piuttosto, l'elemento meraviglioso del film come suspense deve essere proprio il fatto di generare un effetto di rovesciamento.
Lo stesso vale per la descrizione della guerra. In The Way of Drama (Shibaido, 1944), c’è una scena di marcia trionfale mostrata attraverso ombre sulle intelaiature in legno della porta scorrevole all'ingresso della casa e dalle ombre sulla porta a soffietto. Poi, in fondo al corridoio, la fila di lanterne che galleggiano nel buio. Inquadrature brevissime, che esaltano l’«azione descrittiva». In Sincerity, l’ultima scena mostra mostra soldati che salgono su un treno per il fronte. Di solito, si sentirebbero grida di banzai, ma qui sono quasi cancellate da una musica di marcia quasi allegra. E secondo le memorie di Naruse, The Tale of Archery at Sanjusangendo (Sanjusangendo toshiya monogatari, 1945) fu realizzato verso la fine degli anni di guerra, in condizioni difficili in cui la concentrazione sul tiro veniva interrotta più volte. Eppure lo schermo non mostra tracce di un conflitto imminente. Piuttosto, una rinfrescante storia di tiro con l'arco viene descritta come un avvincente film di samurai.
Oggi ci è chiaro: il «ritmo delle emozioni», o le traiettorie dei film, trascendono il contesto storico. I film di Naruse vanno oltre i limiti commerciali e le costrizioni dell’epoca. E nel dopoguerra, durante l’età d’oro del cinema, Naruse mantenne lo stesso atteggiamento, producendo ricchi frutti cinematografici.
Da Mikio Naruse (a cura di Shigehiko Hasumi e Sadao Yamane, Festival Internacional de Cinema de San Sebastián, 1998)
Naruse, il piano condiviso (Jacques Rancière)
Due bambine, un gatto, un cavallo, due attori. Potrebbe condensarsi in questa equazione il cinema di Naruse, la rappresentazione di quell’uguaglianza — tra ragioni e situazioni, tra piani e chi li abita — che conferisce alla sua opera un'impronta così peculiare.
Cominciamo dalle bambine, da quel singolare episodio di Sincerity. La piccola Nobuko scopre che suo padre, Kei, un tempo era stato promesso a Utatsa, la madre della sua amica Tomiko. Superato lo shock iniziale, le due si divertono a immaginare cosa sarebbe successo se Kei non avesse sacrificato il suo amore per un matrimonio vantaggioso. Non sarebbero mai nate né l’una né l’altra, ma qualcun altro, metà di ciascuna. Le bambine sognano. La macchina da presa, invece, no. Trasforma i sogni in spazi e figure. Si avvicina ai volti e ritrae due mezzi profili ai margini del quadro, separati da un vuoto centrale: due semicerchi speculari, sospesi tra astrazione pittorica (composizione a mezze figure) e illustrazione di una filastrocca (mela marcia e mela bella). Questo piano condiviso potrebbe sintetizzare la drammaturgia di Naruse, il modo in cui la fabula si traduce in distribuzione degli spazi e ripartizione dell’immagine.
Si sa che nei suoi intrecci domina l’infelicità. Ma occorre precisarne la natura. Non si tratta solo di vite perdute: amori sacrificati al denaro o alle convenzioni, esistenze spezzate o sviate dalla guerra, la condizione servile di mogli, domestiche o geishe. È che, soprattutto, queste disgrazie obbediscono a una grande legge di equivalenza. Tale nozione va intesa in un duplice senso. In primo luogo, il dolore non si risolve, ma si scambia con un altro, più intimo. Lo spettatore di Yearning (Midareru, 1964) si aspetta di vedere Reiko, coraggiosa vedova, lottare invano per salvare la piccola attività di famiglia, minacciata dall'avvento dei supermercati, e strappare il giovane cognato a una vita da teppista. Ma la sfortuna gli farà prendere una piega opposta: la rivoluzione commerciale trasformerà la bottega in un supermercato, e le cognate la escluderanno dalla nuova impresa. La vita randagia del giovane Shoji si rivelerà frutto di una passione segreta per Reiko, dodici anni più grande. E quell’amore impossibile si concluderà con una morte di cui non sapremo mai se sia incidente o suicidio. Questo passaggio da un dolore all'altro attraverso la felicità è lontanissimo da ogni rovesciamento aristotelico. In Naruse non ci sono mai colpi di scena: solo equivalenze e sostituzioni. Tomiko e Nobuko occupano il posto del figlio che Kei e Utatsu avrebbero potuto avere. I due si ritroveranno solo per un episodio accidentale. E l’insolubile conflitto si risolverà attraverso gli spostamenti di una bambola. Lo scambio di bambini, motivo ricorrente nella drammaturgia di Naruse, assumerà una violenza ben diversa in Hit and Run (Hikinige, 1966), dove la madre del bambino investito tenta invano di uccidere il figlio della colpevole, solo per arrendersi allo sguardo innocente del piccolo, identico al suo. Alla fine, colei che le ha portato via il figlio le ruberà anche la vendetta.
In secondo luogo, l’equivalenza implica che non vi è una ragione fondamentale perché le cose siano diverse da come sono. Nessun motivo per credere che tutto andrebbe meglio se Reiko si ribellasse e ammettesse il suo amore per Shoji. Le vedove di Summer Clouds (Iwashigumo, 1958) e When a Woman Ascends the Stairs (Onna ga kaidan o agaru toki, 1960), che accettano nuovi amori, si ritrovano sole alla fine: una a tracciare solchi nella risaia, l’altra a salire le scale del bar. Nessuna ragione decisiva per rimpiangere la scelta di Kei o la rassegnazione di Utatsa. I matrimoni d’amore di Repast (Meshi, 1951) o di Anzukko (1958) non sono più felici di quelli combinati. Persino i pugni di Tomiko, che massaggiano la madre, sono insieme gratitudine e castigo per il desiderio inappagato a cui deve la vita. Un film di Naruse non sceglie mai tra i mondi e le logiche che contrappone. La sua struttura assomiglia sempre a quel viaggio che, in Wife! Be Like a Rose!, conduce Kumiko alla seconda famiglia del padre. Va lì ufficialmente per invitarlo al suo matrimonio, segretamente per distruggere quel ménage adulterino. La vista di quel secondo focolare la farà desistere. Il padre la seguirà per adempiere ai suoi doveri, salvo poi tornare da quella che ormai è la sua vera famiglia. Non c’è ragione di approvare chi cerca altrove la felicità più di chi resta ostinatamente legato ai morti o agli infedeli. Ironia della sorte, la serata nella casa illegittima sarà dedicata alla ripetizione di una lezione morale sui doveri familiari, recitata con profonda convinzione dal figlio adulterino.
Ma la drammaturgia di Naruse non oppone al nodo aristotelico delle azioni un annullamento schopenhaueriano della volontà, bensì una legge di uguaglianza generalizzata. Se nessun evento è decisivo, se nessuna scelta è privilegiata, allora nessun piano determina il successivo. Non vi è fato che si compia o si ribalti, nulla si scioglie perché nulla è mai stato davvero annodato. Questa logica investe con particolare forza i finali, spesso aperti a un futuro, a volte già trascorso, come in Hideko the Bus Conductor, dove la ragazza declama gioiosamente lo slogan turistico per salvare il suo bus, ignara che è già stato venduto. Senza che ciò abbia importanza. Non più di quanto importi quel pallone, perso dai bambini vicini, che riconcilia — per quanto tempo? — la coppia in crisi di Sudden Rain (Shūu, 1956). La medesima legge regola ogni concatenazione: nessun piano è vincolato dal precedente. Ed è qui che irrompe il gatto: quello che si stiracchia in Repast o in Lightning (Inazuma, 1952), indifferente ai drammi familiari, e ancor più quello che passa sopra la parete in Flowing (Nagareru, 1956). La casa di geishe è in declino e ha guai con la polizia. Per garantirsi un alleato, la padrona invita l’agente di turno. Ordina alla domestica di andare a comprare di nascosto dei noodle dal ristorante sul retro. Mentre la ciotola viene passata oltre la parete, appare il gatto, diretto deciso verso di essa. Ci si aspetta un episodio tragicomico: i noodle rovesciati, l’agente allertato... Ma nulla accade. La macchina da presa passa semplicemente alle attività del giorno dopo. Forse è il simbolo del piano narusiano. Può legarsi al successivo con una classica dissolvenza o agganciarsi bruscamente a un episodio imprevisto. Può trasportarci senza transizioni nel passato o, al contrario, tradurre lo scarto della memoria o del desiderio con espedienti vistosi — sfocature per un flashback (Three Sisters with Maiden Hearts) o sovraesposizioni per scene immaginate (Hit and Run). Ma conserva sempre la disinvoltura del gatto che si sveglia o cammina, incurante di ciò che precede e segue. Questa indifferenza felina è al cuore delle sequenze più drammatiche di Naruse: come quando, in Hit and Run, il bambino che la finta domestica vuole far investire per vendetta rimane imperturbabile tra due flussi di auto, opponendo il suo istinto di cucciolo al progetto criminale e all’angoscia di vederlo realizzato. L’invulnerabilità del bambino-gatto è, in fondo, quella del piano che riduce a pura uguaglianza e a perpetua rinascita le varie apatie narrative: la viltà degli uomini che non vogliono perdere né moglie né amante, la rassegnazione delle donne che non osano seguire il proprio desiderio, il nichilismo dei giovani che "non hanno chiesto di nascere".
Il sommo compito, e trionfo, dei personaggi è allora saper condividere, come le ragazzine di Sincerity, questo piano d’uguaglianza definito dall’equivalenza di ragioni opposte. Può coincidere con la cornice visiva dell'inquadratura, sfruttando l’architettura tradizionale giapponese, con le sue tensioni inverse di promiscuità (che vieta ogni segreto) e di profondità stratificata, dove si distribuiscono conflitti, conciliazioni e indifferenze. Ma queste sapienti distribuzioni di personaggi e azioni non sono mero virtuosismo formale: definiscono un piano di coesistenza in cui ognuno deve imparare a collocarsi. Come in Wife! Be Like a Rose!, dove la visitatrice, inizialmente isolata al piano superiore, si integra gradualmente nello spazio della famiglia illegittima. La condivisione può anche definirsi nel rapporto tra due piani simmetrici, come in Sound of the Mountain (Yama no oto, 1954), dove suocero e nuora sono uniti a distanza dalla candela con cui, durante il temporale, controllano le infiltiltrazioni d’acqua; o nell’intimità distante di campo e fuori campo: Reiko, dopo la dichiarazione del cognato, trema sentendolo scendere le scale e sfiorare il divisorio che li separa — paura che entri, desiderio segreto che lo faccia, vergogna per quel desiderio. Un personaggio sdraiato, uno in piedi: ecco la cellula del piano narusiano. Mariti imbronciati o giovani oziosi accanto a una madre o una moglie indaffarata; la sollecitudine di un corpo disteso per un altro che il tormento tiene eretto, o di un corpo inginocchiato al capezzale di un sofferente: come nella camera d’albergo di Scattered Clouds (Midaregumo, 1967), dove Mishima, febbricitante, è curato da Madame Eda, e tutto è comunicato dal gioco delle mani che preparano il ghiaccio prima di abbandonarsi a quelle del malato. Questa precaria condivisione resta l'essenziale felicità di chi sarà sempre separato da un treno o una nave.
La perseveranza del piano si fonda così sull’etica della rassegnazione. Bisogna imparare a starci — a restarvi e a comportarsi bene — per il tempo necessario. La virtù della civiltà coincide allora con quella dell’attore. Travelling Actors: questo film "minore" racchiude forse la poetica e la morale del regista. Ma i suoi attori sono tutt’altro che ordinari. Il loro personaggio? Un cavallo. Uno fa le zampe anteriori, l’altro le posteriori. Ci vogliono, dicono, dieci anni di studio. E non smettono di perfezionarsi osservando per ore i cavalli veri. Questa felicità mimetica si incrina quando la testa di cartone del cavallo, danneggiata e mal riparata, oppone il ridicolo alla loro arte. Scioperano per la dignità dell’attore. Il capo trova il rimedio: ingaggiare un cavallo vero ammaestrato. Il pubblico è pronto a preferire il reale alla copia, accettando persino che non sappia stare in scena e orini sul palco. Ma gli attori non ci stanno. Scalciando e nitrendo meglio, grazie allo studio, del vero, per sua natura, alla fine lo metteranno in fuga. La mimesi è prima di tutto una morale: mettere al suo posto la natura, i suoi bisogni e dolori. "Non voglio far pietà", dice Michiyo in Repast. Ma chi mai ha avuto pietà di Setsuko Hara? Ecco la catarsi. Purificare la pietà, quando la probabilità dell’infelicità ha già purificato la paura: è con questo programma che un cinema moderno, senza nodi né scioglimenti, ritrova l’antica morale della mimesi.
Da Cahiers du Cinéma n° 556, aprile 2001