Il volto umano del fascismo: Lizzani, Vancini, Polidoro
Critica alla rappresentazione di Mussolini nel cinema degli anni Settanta
Retorica del fascismo dal cosiddetto volto umano (Roberto Alemanno)
Destino certo paradossale quello del cinema "popolare" italiano, "civile" e "antifascista", incapace di offrire del fascismo e del suo dittatore Benito Mussolini una corretta e "verosimile" analisi ideologica-formale. Pensiamo, per esempio, a due film che, in un certo senso, volevano essere il fiore all'occhiello del cinema "storico-politico" italiano ufficiale, anzi a cura dello Stato (cioè dell'Italnoleggio, che già produce con il fascista Rusconi e la regia di Roberto Rossellini un film su Alcide De Gasperi): Il delitto Matteotti di Florestano Vancini¹ e Mussolini: ultimo atto di Carlo Lizzani², dove il fascismo e l'antifascismo sono proposti come "beni di consumo" (nonostante le intenzioni degli autori? Ma sono sempre più i risultati a corrompere persino le più buone intenzioni riformiste), il cui "contenuto", tuttavia, appare sempre più "mitico" e "storicamente" perduto nella notte dei tempi, memoria di antagonismi e di lotte di cui si ha oggi orrore, di lotte (da cui Lizzani cancella anche la violenza obiettiva e "storica": l'esplosione della collera popolare a Piazzale Loreto) sepolte agli occhi di una generazione che guarda con fiducia a un "nuovo modello di sviluppo", forse più "umano" per la nostra società industriale avanzata, dove ogni sospetto è caduto verso le strutture produttive dell'economia capitalistica³.
Alla fine di una stagione cinematografica tra le più grigie del cinema italiano in piena restaurazione e sempre più mortificato dalla strategia del consenso emerge, come un fiore nel deserto, San Michele aveva un gallo dei fratelli Taviani (bruciato, tuttavia, nell'edizione televisiva dopo che gli è stato negato uno straccio di distribuzione). È forse opportuno riflettere sui destini delle produzioni ufficiali di antifascismo, di quei film che Cinema Nuovo ha definito "film riformisti nel sistema"⁴ e sull'involuzione politica e sugli effetti del condizionamento dell'industria culturale che colpiscono intellettuali i quali, al pari di tanta "sinistra storica", non stanno più al passo della classe operaia e delle masse, oggi scosse da una nuova consapevolezza democratica e politica che si espande e, nel contempo, si radicalizza a sinistra, rifiutando così tutti i rituali dell'antifascismo. Ecco che il nuovo "regno del terrore" e delle stragi di Stato non è altro che uno stato di necessità funzionale alla classe dominante, che così alza sempre più il prezzo del "compromesso storico" per sospingere la "sinistra" verso l'impotenza di una generica difesa della democrazia e dell'antifascismo contro la "barbarie" degli "opposti estremismi", magari con l'appoggio del MSI-DN di Almirante, "confidente" dello Stato democratico che combatte la "criminalità e la sovversione". Dopo tutto, per la "sinistra storica" si tratta pur sempre di salvare la logica del dominio.
Il film di Lizzani sugli ultimi giorni d'aprile di Mussolini (mentre Vancini ne illustrava l'"irresistibile" ascesa), dopo le reazioni che ha suscitato non solo nella critica ma negli ambienti politici di "destra" e di "sinistra"⁵, può considerarsi esemplare come luogo di analisi, come specchio di uno "status" politico incerto, dove il fantasma del "compromesso storico" ha quasi timore, per vergogna, a materializzarsi, anche se il desiderio e lo struggimento sono grandi. Non è casuale che il film di Lizzani, nella specificità della sua "forma", sia stato prodotto oggi, proprio quando, nonostante la mobilitazione delle masse ormai insofferenti di fronte allo sfruttamento e alla politica del capitale, si avverte una inequivocabile assenza di tensioni ideologiche nella "sinistra" ufficiale, ben disposta a ogni abbraccio fraterno con un avversario di classe sempre recuperabile, anche se colpito da quella "morte biologica" dopo trent'anni di esercizio del potere in nome della "continuità" di questa idea di dominio e non della sua rottura per un'ipotesi di gestione, anche solo diversa, del potere.
Mussolini: ultimo atto avrebbe ben meritato un dibattito proprio in seno alla "sinistra", non fosse stato altro per l'elogio che ha ricevuto dalla critica borghese e di destra, persino per il "grazie" dei fogli fascisti⁶, il cui entusiasmo per un Mussolini suggestivo, vivo, tragico, umano, tanto "umano" da superare e confondere il bene e il male, il giusto e l'ingiusto, il vero e il falso del fascismo e dell'antifascismo è stato unanime e senza riserve; non fosse stato altro per gli elogi che gli ha riservato, pur non senza equilibri linguistici, una parte della critica di "sinistra". E infine, è anche da ritenersi casuale che il produttore del film, Enzo Peri, abbia parlato di "una pagina drammatica della nostra storia" rappresentata "in maniera obiettiva e al di sopra di ogni odio di parte", ripetendo quasi con le stesse parole alcuni giudizi critici espressi in occasione del Processo di Verona, diretto da Lizzani nel 1962.
Ma questo dibattito che noi apriamo su Cinema Nuovo si è preferito non affrontarlo, eluderlo, proprio quando la critica e la cultura cinematografiche rivelano nodi ancora gravi e irrisolti e pericolose involuzioni, come il ritorno a un volgare "contenutismo" e l'incapacità teorica di elaborare un discorso estetico-materialista sul cinema "storico-politico" e "popolare", perché, in ultima istanza, è il linguaggio (inteso non come astrazione formale, ma come espressione e comunicazione di contenuti determinati) che decide dell'ideologia della forma. Nato da intenzioni genericamente antifasciste⁷, Mussolini: ultimo atto finisce per configurarsi, nella prassi delle stesse scelte linguistiche, in chiara contraddizione con le "intenzioni" dell'autore (pur se non con le sue dichiarazioni di poetica), cioè proprio un film sulla "storia d'amore di 'Ben' e di 'Claretta'", falsamente "obiettivo" e "documentaristico", oggettivamente conservatore per carenze di analisi e di prospettive. Lizzani ha posto l'accento anche sul senso storico-epifanico degli ultimi giorni di Mussolini, in particolare sulla "logica interna" fattuale e strutturale di quegli avvenimenti "processuali"⁸, ma che la storia ha da tempo ormai acquisito, quasi che essi stessi, attraverso il loro puro rispecchiamento "documentaristico", fossero oggi capaci di trasmettere la "verità storica".
Ecco come la verità dell'"immagine" mimetica e "spettacolare", che tuttavia è e non può non essere una finzione. Vertov annotava nel 1940 che persino i frammenti di verità colti dalla realtà fisica dovevano essere trasformati in un "insieme organico" perché potessero esprimere una "verità tematica" (che sarebbe emersa dal montaggio), tenta l'impossibile identificazione con la verità profonda dell'"immaginato" attraverso la "riproduzione" della primaria e naturale "spettacolarità" di quel "processo" storico, come se i significati del tempo, del ritmo e delle immagini della vita potessero essere omogenei, per una singolare ipostasi, a quelli delle loro rappresentazioni; come se, per usare le parole di Elie Faure, questo "processo" potesse giungere oggi sulla terra da una lontanissima stella, attraverso la proiezione interplanetaria di un documentario sul "processo" storico stesso.
Lizzani, tuttavia, avrebbe voluto evitare non solo l'"artificio spettacolare", ma anche, come lui stesso ha affermato, "una costruzione pedissequa di quegli avvenimenti e di quei personaggi"⁹. Avrebbe voluto aprire il cuore della storia e tentare di evitare quelle "caratteristiche negative" così bene messe in luce da Kracauer a proposito del "film storico". Mussolini: ultimo atto voleva essere una "obiettiva" documentazione degli ultimi giorni di Mussolini e della Petacci, ma fallisce sia sul piano "documentaristico", sia su quello della profondità ideologica, proprio perché ogni significato possibile che inerisce al crollo del dittatore non esaurisce il significato del fascismo e dell'antifascismo: l'agonia di un dittatore (almeno nelle forme della "cronaca" e del "romanzesco" espresse da Lizzani), l'"ultimo atto" della "rappresentazione" del suo "disonore" non potrà mai illuminare l'essenza di una dittatura, di un fascismo che non possiamo non interpretare come ancora operante nella storia presente, un fascismo non soltanto "rivissuto" da Lizzani mentre ripercorreva "passo passo" quei chilometri da Milano a Dongo lungo i quali si concluse un periodo drammatico della nostra storia nazionale¹⁰.
Ancora una volta, Lizzani non ha tradito i limiti idealistici di una poetica che pretende interpretare e spiegare la storia attraverso la storia di protagonisti "potenti"¹¹, di arbitri del destino al tramonto, ma che finiscono per agire non dentro la storia, ma al di sopra della storia e al di fuori di ogni contesto socioeconomico, nell'ambito di una specifica connotazione "umanistica". Per cui l'unica contraddizione finisce per sussistere tra l'"umanità" di Mussolini (e di Claretta, qui vittima del mito del duce) e il fascismo delle comparse in camicia nera e di quello che pure appartiene alla "personalità" del dittatore (si veda l'espediente, del tutto estrinseco, dei "cinegiornali" visionati da Mussolini, quasi un estremo tentativo di ampliare l'orizzonte angusto, "privato" della rappresentazione); tra l'"umanità" intangibile di Mussolini e le argomentazioni razionali e didascaliche dei partigiani, le quali, tuttavia, finiscono per rimbalzare sul corpo molle, quasi inutile, di un uomo che ci appare, appunto, non tanto uno sconfitto quanto una vittima della "violenza" della storia. E questa contraddizione, centrale nel film, più che rivelare ambiguità, scopre una doppiezza ideologica profonda, paradossale ma reale, espressa in quell'"autonomia" estetico-ideologica dei valori "umani" del fascismo dai controvalori dell'antifascismo, valori e controvalori mai colti in una sintesi storico-dialettica.
Il cinema non ha e non ha mai avuto una mitica e opacizzante "vocazione naturalistica"¹², e basterebbero a convincere Lizzani le dimostrazioni di Arnheim. E anche l'"orrore per il mondo"¹³ non è causa né effetto della ricerca sperimentale, ma proprio il risultato di quella presunzione per cui la "verità" dovrebbe nascere non da un processo concettuale metaforico che renda "nuovo" e "verosimile" il rappresentato, ma dalla stessa rappresentazione della realtà e della storia come "descrizione documentaria" (e documentata) di un mondo che è a sua volta ancora ricostruzione e artificio, non un "sintagma vivente" ma la sua copia. Tra il film di Vancini e quello di Lizzani pur esiste un legame estetico-ideologico complementare: se Vancini tenta l' "imitazione" dei personaggi, Lizzani tenta quella dei fatti, che dovrebbero essere più carichi di verità di quanto non lo siano, in realtà, essi stessi. Se Straub - pur con il suo "antinaturalismo", che Lizzani teme possa trasformarsi in un nuovo "manierismo" e nella "fuga dall'oggetto", e possa anche rappresentare quella "più grande paura del reale" connessa al marxismo come ideologia della trasformazione del mondo¹⁴ - ha affermato, a proposito di Les yeux ne veulent pas en tout temps s'fermer (Othon), che la cinepresa non poteva riprendere sul Palatino il tempo di Galba, questa stessa cinepresa non può fingere di essere il 28 aprile 1945 vicino al cancello della Villa Belmonte, a Giulino di Mezzegra, a spiare l'esecuzione di Mussolini e di Claretta. Rotto allora per sempre l'incanto della "verità documentaristica", remoto o prossimo che sia il tempo storico, rimangono intatti ben altri problemi e difficoltà per la rappresentazione della "verità" e della "verosimiglianza" metaforica in una poetica del realismo.
Revisionismo e sospensione della storia
Tra il "dire" e il "detto", tra i "ragionamenti" e la realtà della prassi produttiva si apre lo spazio vuoto che separa due rette parallele, lo spazio dell'alienazione. Anche se si avverte, ma in una breve sequenza, la necessità di riflettere sul fascismo come storia presente (lo è nella scena in cui nascono problemi di competenza circa il "destino del duce" e la necessità "storica" e "politica" di eseguire o meno immediatamente la fucilazione di Mussolini: già Valerio ammonisce sulla impossibilità di ritornare allo "schifo dei compromessi" e a quelle debolezze contro le quali si è fino a quel momento lottato), si finisce per rappresentare una "revisione" del fascismo passato e non di quello presente e quotidiano, di un fascismo a cui si oppone quell'antifascismo difensivo inteso come "rendita", costituzionalista, intenzionalmente riformista (quasi la riproposta di un Fronte di tutti i partiti di buona volontà dell'arco costituzionale) che appare in chiusura balenante sui nomi dei firmatari del proclama del Comitato di Liberazione dell'Alta Italia sull'esecuzione di Mussolini. Come non ricordare la definizione che Lukacs ha dato del revisionismo: a differenza del materialismo storico, che considera "i fenomeni complessivi del processo storico-sociale esclusivamente dall'angolo visuale di classe del proletariato", il revisionismo "si sceglie come punto di vista quello degli interessi dell'intera società", interessi soltanto apparenti e temporanei, e che sottolinea Lukacs non possono sussistere nella realtà storico-sociale della lotta di classe¹⁵.
L'immagine mitica e rassicurante perché "separata" dal contesto storico e tuttavia "umana" che Lizzani ci offre del fascismo è anche stata compresa e accettata da Alberto Moravia, che rileva come il «messaggio antifascista […] è affidato proprio a questa differenza tra l'"astoricità" di Mussolini e la "storicità" dei suoi avversari: per Moravia, il fascismo non è altro che "annullamento o nel migliore dei casi, sospensione della storia.»¹⁶ E dunque, questa "astoricità" di Mussolini, la sua "via crucis" descritta tanto "al di sopra di ogni odio di parte" da suscitare commozione e solidarietà e pur con un "naturalismo" troppo compromesso con l'esposizione di particolari cronachistici non certo fondamentali e che eludono quella "sintesi" dei valori e degli antivalori promessi da Lizzani, questa evocazione cinematografica è quella di un dittatore vittima della ragion di Stato, assalito da pensieri profondi e insondabili, penosamente smarrito e abbandonato al suo destino, insomma sul punto di ritirarsi "dalla politica per vivere in pace". Mentre la sua pietosissima esistenza individuale con la profondità e la tempesta dei turbamenti e dei valori psicologici, e quella della sua amante non resistono alla "crudeltà" e all'urgenza della storia (si pensi, per contrasto e si colga pure tutta l'apparenza di questo contrasto che invece mostra la complementarità estetico-ideologica di due mimesi quali la "ricostruzione" e il "documentarismo" all'"irresistibile" Mussolini di Vancini, che ne è il capovolgimento grottesco ma ugualmente "inverosimile").
La resa nella stanchezza della verità
L'itinerario del "protagonista", al penultimo atto, non evita la malinconica commozione di una sosta con una sequenza tra le più sature di "pathos" escogitate da una regia che ormai ci offre del fascismo soltanto le sue immagini liriche, le più letterarie: "Ben" chiede un po' d'intimità con Claretta nella camera da letto della casa di Maria, a Giulino di Mezzegra, il cui uscio, per sicurezza, doveva rimanere sempre aperto anche se si trattava dell'ultima notte. Ma come non ricordare alcune pagine scritte da Lizzani nel 1949 contro certe affermazioni di chi auspicava un "sano" ritorno al cinema dell'artificio: «Esse sono, sostanzialmente, gli indici di uno stato d'animo, che si può riassumere in questa formula: stanchezza della verità. Ci viene spontaneo domandarci se oggi, in Italia, questa stanchezza sia veramente legittima, nell'animo degli artisti, o non derivi in essi da un insensibile sgretolamento, che intorno a loro si consuma, di certe posizioni di vita sociale e democratica. Non vorremmo che questa fuga dal vero fosse provocata anche in costoro, senza che se ne rendessero conto, da quel clima psicologico che si va creando nel nostro paese, da quell'atmosfera di veto aprioristico in cui si vorrebbe cominciare ad immergere ogni artista cosciente da quel sottile e insistente invito alla resa che ci viene rivolto ogni giorno da quanti individuano nel nostro cinema un'arma aggressiva di verità e di auto-esame»¹⁷.
Il film di Lizzani, al livello materiale della stesura delle sue immagini, testimonia questa "fuga dal vero" con la "documentazione" e la celebrazione dell'umanità privata e astorica dei dittatori al loro "ultimo atto", mentre a noi non interessa che la loro "disumanità pubblica" in quella tragedia storica che ancora continua nella trasformazione delle sue forme, anche perché gli oppressori, come ci ricorda sempre Brecht, «non si presentano sempre con la medesima maschera. Le maschere non si possono strappare sempre alla medesima maniera. Essi hanno molti metodi per sfuggire allo specchio che viene loro presentato»¹⁸.
¹ Si veda, a integrazione di questa analisi, le note già apparse nella nostra scheda del film di Vancini, in Cinema Nuovo n. 225, settembre-ottobre 1973.
² Mussolini: ultimo atto. Regia: Carlo Lizzani; soggetto e ricerche storiche: Fabio Pittorru; sceneggiatura: Carlo Lizzani, Fabio Pittorru; fotografia (a colori): Roberto Gerardi; musica: Ennio Morricone; scenografia: Amedeo Fago; costumi: Ugo Pericoli; interpreti: Rod Steiger (Mussolini), Franco Nero (Valerio), Lisa Castoni (Clara Petacci), Lino Capolicchio (Pedro), Henry Fonda (cardinale Schuster), Bill Wenders (Hans Fallmeyer), Gaetano Russo, Bruno Corazzari, Nando Poggi, Andrea Aureli, Francesco Di Federico, Marvin Drake, Manfred Freyberger, Giuseppe Addobbati, Giacomo Rossi Stuart, Franco Mazzieri, Giuseppe Rodolfo Dal Prà; produzione: Enzo Peri per l'Aquila Cinematografica (Italia, 1974); distribuzione: Italnoleggio.
³ In un corsivo pubblicato sul Manifesto del 2 agosto 1974, Rossana Rossanda, commentando l'immobilismo del PCI e il suo atteggiamento "esorcista" nei confronti del Manifesto, a cui non perdona la circostanza che esso incarni «la prova quotidiana del fallimento della loro previsione e strategia», scrive: «Incastrato [il PCI] fra un'ipotesi rivoluzionaria che non è più in grado di assumere, e un'ipotesi di riformismo che non gli è più consentita, vive astutamente come alcuni vecchi possidenti, di sola rendita: finché dura la crisi, è destinata a portargli voti, anche se non gli permette di andar oltre senza modificarsi a fondo». Come corollario, la polemica pasoliniana quest'anno al centro degli interessi della cultura italiana sull'omogeneità del fascismo e dell'antifascismo (sul piano del comportamento, di una "esteriorità" che probabilmente dovrebbe essere anche lo specchio di una "interiorità") se può essere accettabile nei limiti della volgarizzazione delle previsioni di Adorno e Marcuse sulla società "unidimensionale", culla di un nuovo fascismo, non è più attendibile quando rivela una sostanziale incapacità dialettica a esprimere e a chiarire le linee di forza che oggi emergono dal programma della Nuova Sinistra rivoluzionaria. Ecco che il "moralismo" teoretico di Pasolini, che s'innalza al di sopra della storia, non è altro che l'immagine emergente dal fondo di una crisi d'impotenza, e la testimonianza, ancora una volta, della "fine dell'ideologia".
⁴ Si cfr. la relazione di Cinema Nuovo presentata da Guido Aristarco al Convegno sul cinema politico che si è svolto a Bologna dall'8 al 10 dicembre 1972, dove sono messi in luce tutti gli equivoci del "nuovo corso" del cinema politico italiano, inaugurato da Il generale della Rovere di Roberto Rossellini.
⁵ Si dice che il film sia stato accolto molto favorevolmente da tutto il comitato centrale del PCI, e che, dopo la nostra recensione apparsa sull'Unità di Roma del 30 marzo 1974, la direzione del quotidiano avrebbe voluto pubblicare una serie di articoli in terza pagina, tali da riabilitare il film e da correggere o cancellare il mio giudizio. Il progetto non fu portato a termine; tuttavia si dice si decise di comunicare alla redazione milanese dell'Unità di non tener assolutamente conto dei rilievi critici apparsi nella nostra critica. A Ugo Casiraghi toccò il compito ingrato di stilare la "contro-recensione", la quale sarà un capolavoro d'indulgenza (una solitaria difesa ad oltranza del film di Lizzani, accanto ai giudizi negativi di Mino Argentieri su Rinascita, di Callisto Cosulich su Paese Sera, e anche ai rilievi critici dell'Avanti! e di Sette Giorni), quasi l'introduzione che avremmo potuto leggere in un depliant pubblicitario.
⁶ Si veda, per tutti, Il Borghese del 7 aprile 1974.
⁷ «È mia profonda convinzione», ha detto Lizzani, «che gli avvenimenti di quei giorni racchiudano in sintesi tutti i valori e gli antivalori che si scontrarono nei vent'anni precedenti, e che siano eloquenti per comprendere meglio tante cose di oggi, tanti nodi ancora non risolti della nostra storia contemporanea», in Carlo Lizzani parla del film, in Cartella informativa a cura dell'Ufficio Stampa dell'INCE.
⁸ «Questo dibattimento processuale non è un artificio spettacolare usato dagli autori per articolare la materia e creare suspense, ma uno schema singolare offerto dalla storia vera di quei giorni dell'aprile 1945. Mai, nel corso della storia contemporanea, accadde di vedere, coordinati come davanti a una corte giudicante, una serie di fatti e personaggi così drammaticamente in conflitto tra di loro e al tempo stesso così concatenati gli uni e gli altri da sembrare pezzi di un mosaico che a poco a poco si compone e precipita verso il disegno conclusivo come spinto da una sua rigorosa logica interna», in Cartella informativa cit.
⁹ In Cartella informativa cit.
¹⁰ Ivi.
¹¹ Carlo Lizzani, Il processo di Verona, in Cinema Nuovo n. 16, gennaio-febbraio 1963.
¹² Carlo Lizzani, Come risolvere il problema del naturalismo nel cinema?, in Cinema Nuovo n. 204, marzo-aprile 1970.
¹³ Carlo Lizzani, Superamento del naturalismo e orrore per la realtà, in Cinema Nuovo, n. 209, gennaio-febbraio 1971.
¹⁴ Ivi.
¹⁵ György Lukács, Lenin, Einaudi, Torino 1970.
¹⁶ Alberto Moravia, Un dittatore in cronaca nera, in L'Espresso, n. 14, 7 aprile 1974.
¹⁷ Carlo Lizzani, Pericoli del conformismo, in Cinema, n. 12, 15 aprile 1949.
¹⁸ Bertolt Brecht, Popolarità e realismo (1938), in L'Avanguardia e la poetica del realismo di Paolo Chiarini, Laterza, Bari 1961.
Psicoanalisi del dittatore (Giancarlo Grossini)
La figura di Mussolini ha trovato una sua precisa collocazione come personaggio di primo piano proprio in questa ultima stagione cinematografica. Che il capo del fascismo debba essere preso in considerazione dal mezzo filmico è una necessità volta allo smantellamento di un mito, incarnato da una personalità tanto odiata quanto caratterizzata da profonda ambivalenza, appunto perché troppo investita di aggressività repressa. Ma ancor più necessaria sarebbe una analisi del "duce" attuata però in modo tale da farne uno specchio del fascismo, rendendolo "tipico" del periodo storico. Ricordiamo brevemente alcuni film in cui Mussolini aveva già fatto la sua comparsa come personaggio: Il grande dittatore di Chaplin, in cui la figura del capo fascista Mussolini-Napoloni, vista in una dimensione ridondante di patologiche autoesaltazioni, fungeva da gioviale spalla al dittatore Hitler-Hinkel; la caratterizzazione clownesca ne Il potere di Tretti, in cui la maschera di gomma raffigurante l'effigie del "duce" simbolicamente si richiamava a una personalità "vuota" e "costruita" dalla "testa ai piedi"; infine, il Mussolini de Il delitto Matteotti di Vancini, inteso in modo pacato e privo di pregnanza interpretativa.
Ecco che ora, in due film, Mussolini ha coperto il ruolo di protagonista principale; si tratta di Mussolini: ultimo atto, diretto da Carlo Lizzani, e di Permettete, signora, che ami vostra figlia?, diretto da Gian Luigi Polidoro. L'accostamento di questi film potrebbe apparire troppo forzato, dati i diversi intenti che animano i registi. Lizzani, accusato di aver girato un film "sbagliato", risponde sull'Espresso (n. 23, 9 giugno 1974) di avere teso alla realizzazione di « un film veramente politico», il cui substrato è da ricercarsi in una matrice di «impegno politico-culturale»; Polidoro ha invece ripreso in chiave macchiettistica la figura di Mussolini, sullo sfondo di una vicenda il cui ordito è di natura teatrale con inflessioni malinconico-grottesche. Quindi, tra i due film ci sono più differenze, qualitativamente intese, che affinità, ma è significativa la scelta di uno stesso tema.
Entrambi i registi, infatti, hanno puntato sulla messa in scena del rapporto sentimentale tra Mussolini e Claretta Petacci. Nell'ambito della realizzazione filmica di Polidoro, tale rapporto è visto sotto la lente deformante di un certo qual mestiere da teatrante-guitto, con un Mussolini rievocato da una scalcinata compagnia teatrale, il cui capocomico sceglie proprio la figura del "duce" per una sua commedia allo scopo di farsi valere agli occhi di una ninfetta attrice e accrescere con ciò la propria autostima e potenza virile, così combattendo la paura per l'altro sesso; Claretta Petacci è, d'altra parte, resa a mo’ di scipita macchietta e ridotta ad oggetto nelle mani di una forte personalità. Nel film di Lizzani, con aspirazioni documentaristico-educative (il regista, sempre sull'Espresso, riporta un giudizio secondo cui il film « va fatto vedere a tutti perché racconta cose ignorate dai libri di scuola»), si cade nella raffigurazione di una Claretta passionale, dedita morbosamente e usa frasi dai toni dannunziani: "Ha bisogno di me, ha sempre avuto bisogno di me!", "Qualunque cosa accada non pensare a me, pensa solo a te stesso!" al proprio uomo. Tale passionalità carica troppo tragicamente la figura della Petacci, che assurge a simbolo di un amore trascendente; i suoi atteggiamenti non sono tanto ragionati ma si svolgono a un puro livello verbale-istintuale, in cui contano più che le parole le inflessioni vocali e la gestualità accompagnata dal pianto. La Petacci diviene quindi personaggio profondamente patologico, dominato da regressioni verso sfere di comunicazione e comportamento quasi infantili, e le cui profferte d'amore, tanto appassionate, ricordano chiaramente un attaccamento egoistico a una personalità astrattamente idealizzata, per cui lo scontro con l'"altro" (Mussolini) tende ad assolutizzarne il carattere, a vedere in ogni sua azione ed atteggiamento il segno di una autorità tanto potente quanto infallibile.
Tale idealizzazione è il preciso compimento di quel processo psicologico nel quale l'oggetto su cui si scaricano le pulsioni della nostra personalità si tramuta nell'esternarsi di quell'istanza psichica che Freud chiamò "Super-io"; per cui il Super-io, formatosi con l'introiezione dei genitori e delle regole che il mondo esterno impone, viene ribaltato nell'"altro" allorché l'incorporazione è avvenuta attraverso conflitti troppo angosciosi. Dal punto di vista "economico" dello psichismo, il meccanismo dell'identificazione di Claretta con Mussolini, così come quello della "folla" con un "capo", è da riportarsi a una inconscia difesa dalla società che abbandona l'uomo ai suoi istinti e non sa porre le basi per un "decentramento" psicologico cosciente dello sviluppo morale. Lizzani ci presenta, dunque, una Claretta "vittima rassegnata" al proprio destino di masochista, tesa alla ricerca di una continua approvazione e dimostrazione di affetto. Mussolini è visto come il fallimento di tutta una serie di tentativi che un uomo attua per dimostrare la propria potenza e le cui segrete aspirazioni a un "ristabilimento dell'ordine" si scontrano con la tendenza a ritirarsi sempre più in se stesso, nascondendo dubbi e delusioni.
Queste nuove angolature dalle quali si riprendono Mussolini e la sua donna ci pongono degli interrogativi riguardanti le funzioni di tale presentazione e, più precisamente, ci si domanda fino a che punto sia valida una analisi del fascismo, posta di là da un impianto ora tragico-sentimentale ora buffonesco, del rapporto Mussolini-Petacci, così come è descritto nei due film. Le risposte, crediamo, vanno ricercate in molteplici fattori di origine sociale e psicologica. È indubbio che l'instabilità del nostro sistema spinge il cinema, in esso operante, a misurarsi in un gioco che consiste nel deviare l'utilità di promuovere una analisi critica dei fatti storici esaminati, riscoprendo invece, nel nostro specifico caso, aspetti del fascismo purgati di quell'importanza che frutterebbe un ripensamento ed un accostamento critico alle situazioni odierne. Così si spiega questa "riscoperta" di una figura "paranoico-maniacale" presentata con tonalità pseudo-idilliache facendola assurgere a capro espiatorio di poco chiare "manovre" attuali. L'intendere il capo del fascismo con un tocco di "bonomia" si collega a quelle tendenze all'analisi della personalità espresse col termine di "umano"; anche il rapporto sentimentale è componente nella totalità "uomo" ed è senz'altro giusto includere tale aspetto considerando la figura di Mussolini, ma, nonostante ciò, non possiamo che scontrarci con un metodo così riduttivistico di valutazione storica, che attende ambiguamente alla "umanizzazione" del fascismo; inoltre, le forti spinte all'identificazione, a cui soggiace lo spettatore, agiscono nei confronti di una inconscia rivalutazione dei personaggi considerati.
A questo proposito, è chiarificatrice, ai fini del nostro discorso, nel film di Polidoro, una frase pronunciata da una procace cameriera romagnola: ella, parlando al capocomico Pistone, accenna alle lacrime di una vecchia zia "che, pur avendo sempre votato falce e martello, ha pianto vedendo la Petacci in scena" durante la rappresentazione di Ben e Claretta. La pericolosità di tali film risiede, pur non dando essi adito a così semplicistiche commozioni, in questo scadere nel sentimentalismo retorico. Nel film di Lizzani, infatti, la morte di Claretta può indurre a un moto di ribellione derivato dalla forza dell'"immagine", in cui si nota il suo afflosciarsi a terra, ormai cadavere, a causa della noncuranza dimostrata dall'esecutore di Mussolini; la ripresa agisce da catalizzatore all'avvicinamento proiettivo alla Petacci, capace di un amore così viscerale. Questo "revival" del rapporto Mussolini-Petacci rappresenta, in ultima analisi, una ricostruzione del passato limitata mistificatoriamente all'aspetto "umano-sentimentale", per superare con uno spostamento di temi, verifiche a momenti attuali difficili.
Da Cinema Nuovo n. 231, settembre-ottobre 1974
Recensione del Delitto Matteotti (Roberto Alemanno)
«Ma, oltre alla messinscena, i film storici hanno un'altra caratteristica negativa: sono limitati», scrive Sigfried Kracauer nel suo saggio teorico sulla specificità "materialistica" del linguaggio filmico, edito in Italia nel 1962 con il titolo Film: ritorno alla realtà fisica. «Negano la naturale inclinazione del mezzo per l'illimitato. In quanto riproduzione di un'epoca trascorsa, il mondo che essi ci mostrano è una creazione artificiosa radicalmente isolata dalla continuità spaziale e temporale del mondo vivo, un cosmo chiuso in sé che non ammette possibilità d'estensione». Non ci sono dubbi che l'ipotesi teorica di Kracauer trovi una puntuale conferma e una inequivocabile verifica nei cosiddetti "film storici" della storia del cinema e soprattutto oggi in quei film spettacolari che pretendono essere "storico-politici". Tuttavia, questi autentici film "storico-politici" tendono a distruggere la storia come "memoria" per riaffermare la storia come "presente"; cioè materia vivente nella dialettica del reale (cfr. Giulio Carlo Argan, "Storia non come memoria ma presente e realtà in atto", in Cinema Nuovo, Torino, a XXI, n. 215, gennaio-febbraio 1972), dove si afferma la necessità, per una corretta interpretazione della teoria marxista, «di prendere posizione non tanto rispetto al passato quanto rispetto al presente. Rispetto al presente si giudica, si sceglie, si agisce. E questo è lo storicismo proprio della coscienza rivoluzionaria».
In questo senso, film diversi come Ottobre e Ivan il Terribile di Ejzenstejn, Processo di Giovanna d'Arco di Bresson e San Michele aveva un gallo dei fratelli Taviani rivendicano in comune la necessità di narrare la storia non come "ricostruzione" ma come "critica" della storia attraverso le connotazioni di poetiche determinate.
Il delitto Matteotti si rivela null'altro che una "creazione artificiosa radicalmente isolata" dalla storia e contro la storia, anche se Vancini, a chi gli contestava alle "Giornate" veneziane di aver manipolato la storia, così rispondeva: «Non potevo fare un trattato storico, volevo proporre alla riflessione odierna la storia di un misfatto e di una disfatta. Sì, lo so, non c'è la polemica Gramsci-Togliatti. Tante cose non ci sono. Ho raccontato come gli uomini dell'opposizione non riuscirono a cogliere l'occasione d'una grande debolezza del fascismo per abbatterlo. Ho raccontato gli errori compiuti nello scontro con una coalizione formidabile di interessi finanziari, industriali, agrari, clericali». A una prima lettura, Il delitto Matteotti si offre come una puntigliosa riproduzione di un'"epoca trascorsa", quella dell'anno 1924 (un anno di crisi profonda per l'opposizione e per il fascismo, anche se le radici di quella "disfatta" della opposizione salgono e si ramificano oltre il Novecento fino alla metà dell'Ottocento).
L'evocazione "storica" del passato attraverso la "ricostruzione" ambientale (dalla sabbiolina del Lungotevere, luogo del delitto, alla cotonatura di Gramsci) è ancora una volta, come nei film prodotti dall'industria culturale, veicolo linguistico non solo per garantire la mercificazione del prodotto ma soprattutto il suo distanziamento (non certo in senso brechtiano) dalla nostra realtà contemporanea, dalla storia presente. Nel Delitto Matteotti emerge, quindi, più la preoccupazione per la "somiglianza" che impegno per una rappresentazione dialettica e quindi "realistica" della storia, più la necessità di una identificazione del prodotto con l'immagine del passato che il rispecchiamento dialettico del passato nel fuoco del presente storico. Il film di Vancini è l'immagine di un'antica memoria "antifascista", la cui lezione di storia, alla prova materialistica del linguaggio, non è altro che una lezione sull'irresistibile ascesa di Benito Mussolini.
Paradossalmente, oltre la genericità "documentaristica" di un didascalico e scolastico conflitto ideale (tra Gramsci, Turati e Amendola; mentre fugaci sono le apparizioni "confindustriali" e del tutto assente è il dibattito sulla politica estera e sui rapporti internazionali), Il delitto Matteotti è la storia soggettiva (dell'autore) e obiettiva (dell'ideologia) di un cedimento, di una frustrazione e di una decadenza. L'egemonia del fascismo, il suo dominio politico, non sono stati determinati storicamente da un "misfatto" e poi da una "disfatta" come crede Vancini, ma proprio la "disfatta" ideologica (e non solo aventiniana) ha aperto la strada alla violenza fascista. Tuttavia, nel Delitto Matteotti protagonista dell'anno 1924 è l'immagine coerente, concreta, autoritaria, piena di fascino, "positiva" di Mussolini, genio oscuro e imprevedibile come un moderno dottor Mabuse. E l'"ineluttabilità" dell'ascesa di Mussolini è la conseguenza diretta dell'ideologia del film "storico-politico", secondo l'"estetica" del cinema spettacolare. C'è un nesso estremamente logico tra il manierismo della "ricostruzione storica", la fatalità espressionistica dell'ascesa di Mussolini e la rappresentazione dell'ideologia e della prassi dell'opposizione e del Partito Comunista, mistificate nell'iconografia di personaggi quali Gramsci, Turati e Amendola, osservati come vittime predestinate e inermi della storia e della violenza del potere che si espande in un Paese deserto, inabitato e forse "inabitabile" nella diegesi filmica.
Per queste ragioni, Il delitto Matteotti - vorremo contro le stesse intenzioni degli autori, perché pensiamo che in Bronte, cronaca di un massacro, il tentativo di presentare la storia come presente era in gran parte realizzato - più che una lezione di antifascismo, si rivela un saggio teologico sul piano della storia, un'interpretazione passiva e acritica, obiettivamente repressiva e regressiva, di un momento nodale della storia d'Italia, dove la crisi della tattica e della strategia del movimento operaio raggiungeva il suo culmine. Momento emblematico di un'involuzione ideologica della "sinistra", l'anno 1924 appare nel film di Vancini sospeso tra un passato oscuro e un futuro inquietante, dove i Giganti della montagna già bruciano ogni "velleità" rivoluzionaria. E non si creda che nel Delitto Matteotti il "contenuto" sopravanzi l'"immagine"; anzi, è la stessa "forma", la stessa struttura del "plot" (l'intreccio, l'accumulazione orizzontale di "attori-personaggi" la cui verità storica sembra limitata all'artificio della somiglianza) a determinare la connotazione reale (filmica) del discorso "ideologico". E se ogni tecnica produttiva è l'espressione diretta di una ideologia specifica, dovremo anche rilevare la circostanza fondamentale per cui anche la "irresistibile" ascesa di Mussolini, illustrata attraverso le forme del film "storico", rivela soltanto il volto mitico di un fascismo "tradizionale", chiuso e consacrato nella memoria e nelle immagini esteriori e "popolari" dei suoi stereotipi, inseguiti nella stessa ricerca ostinata di una somiglianza naturalistica e "umana" che, in nessun caso, può essere confusa con una ricerca del verosimile.
Il cerchio di tutte le contraddizioni si chiude sulla circolarità ideologica-estetica che l'ipotesi teorica di Kracauer suggerisce circa gli esiti improduttivi dei "film storici". Il delitto Matteotti, quindi, non esprime altro, "obiettivamente", che la capitolazione e il fallimento di ogni resistenza a un "formidabile" fascismo "convenzionale", mentre il fascismo quotidiano e "reale" assume sempre più nuove forme e trasformazioni. Ma, in sostanza, l'amara lezione "antifascista" che lo spettatore può trarre dal Delitto di Vancini è soltanto una lezione su un delitto di Stato impartita da un ente di Stato. (Come non collegare la "resistibile ascesa" di Mussolini all'"inevitabile" assassinio di Matteotti, e a quello ancora più "inevitabile" per la Democrazia cristiana cilena e italiana, e per tanti altri partiti di "sinistra" di Salvador Allende? E come non riproporre ancora una volta all'ordine del giorno l'antica necessità di combattere contro l'illusione che esista in Italia e nel mondo una "borghesia di sinistra"?)
Da Cinema Nuovo n. 222, aprile 1973