É natale in Germania. Il grasso borghese in Mercedes - la moglie ridipinta a nuovo per l'occasione, i figli a sciare sulle nevi più costose d'Europa - scivola indisturbato e sicuro nei grandi centri urbani dove risplende il mite inverno senza recessione della Repubblica federale tedesca. Osserva le sue strade affollate di gente affannata allo shopping, si sofferma davanti allo scintillio oscenamente carnevalesco delle sue vetrine, conta i suoi marchi nello smog denso che oscura e illumina il suo mondo.
Dall'altra parte della strada ci sono quattro giovani insoddisfatti. Vengono da una fanciullezza cullata dalle vertigini adenaueriane e dalla tristezza del muro di Berlino; sono stati ragazzi negli scontri del 1968; adulti, magari prima del necessario, nel tragico scenario del tentato omicidio a Dutschke e della caccia alla banda Baader-Meinhof. Ma è natale anche per loro: più tardi racconteranno in una stazione di polizia appena appena tiepida: «... volevamo sgraffignare un abete...». Va bene. Ma hanno ucciso un guardaboschi, lo hanno decorato con i leggeri fili d'argento e con le candeline a intermittenza delle feste, e lo hanno piazzato vicino alla stufa, e loro lì a scaldarsi. Il borghese tedesco, informato della faccenda direttamente dall'amico Springer, scuoterà la testa con aria di compassione, segnerà i nomi dei quattro scapestrati in una sua agendina particolare, ordinerà birra e salsicce, e siederà compostamente alla propria tavola. Chi ha paura di quattro ragazzi? Nessuno, eccetto il guardaboschi.
La contraddizione è insanabile, almeno apparentemente: finché da una parte starà il borghese e dall'altra quattro ragazzi velleitari, finché il guardaboschi resterà a guardare, contento della propria Volkswagen e del proprio istupidito sindacato, nessun atto di violenza, nessuno scandalo e nessun urlo saranno mai veri, concreti.
In una società come quella tedesca attuale, confortata dalla pace sociale e dal trionfo borsistico del marco, la lotta di classe langue in disparte, appena sfiorata da un anarchismo fuori moda e da solitarie esplosioni di violenza che rimandano a una testarda quanto inutile aggressione al Potere. La presa di coscienza che il giovane cinema tedesco opera su questa disarmante realtà è dunque un primo atto di coraggio e una decisa assunzione di responsabilità politica.
La incontrovertibile spaccatura che oppone intellettuali in qualche modo legati alla classe da una parte, e piccola e grande borghesia ottusamente conservatrice dall'altra impediscono in Germania i fenomeni dei Petri e dei Damiani, le ombre cioè di un cinema astutamente politico e che politico non è, mentre scavano un fossato invalicabile tra produzione squisitamente commerciale, solitamente controllata dalle grandi case di produzione americane, e cinema d'autore. Questa mancata integrazione, di cui in Italia. con la mediazione del riformismo, abbiamo invece abbondanti esempi, finisce col caratterizzare uno strano fenomeno per cui il film a basso costo, apertamente innovatore nella forma quanto nel contenuto, dissacrante e volutamente difficile, appare spontaneamente politicizzato.
E non si badi bene, nelle ambiguità semplicistiche dell'esperimento militante bensì attraverso un cinema opposto scopertamente al sistema e affidato all'intelligenza dialettica dell'eventuale disertore delle sale commerciali. Cinema complesso dunque, e non alieno da certa antica suggestione per i modelli francesi, da certa riconosciuta avanguardia stilistica, ma anche e soprattutto in personaggi e situazioni che «parlano» direttamente, senza la molla spettacolare della dichiarazione aperta e il più delle volte scontata.
In questo senso i cineasti che in esso si riconoscono sembrano aver molto da insegnare agli accaniti sostenitori del romanzo a tutti i costi popolare e invece spesso populista. I Kluge, gli Schaaf, gli Schlöndorff, i Fassbinder. mettono le carte in tavola con la certosina pazienza degli amanuensi, dispiegano una realtà politica non tanto nelle sue forme epiche e immediatamente riconoscibili quanto in quelle meno vistose ma non per questo meno significative dell'allineamento degli oggetti e dei fatti. La dialettica che viene a istituirsi muove allora dalle impercettibili contraddizioni che investono le problematiche del quotidiano e del normale, mentre il discorso di fondo, strettamente collegato alla disamina delle discriminanti di classe, passa sottilmente più a monte e però si impone all'attenzione con forza indiscutibile. Valga per tutti l'esempio offerto da Volker Schlöndorff con il film L'improvvisa ricchezza della povera gente di Kombach, in cui il tentativo di rivisitazione del proprio passato storico centra il bersaglio con rara efficacia proprio nella misura in cui si appunta su un fatto di cronaca al limite tra l'episodio criminoso e la naturale spinta conservatrice esercitata dal sistema sulle molecole che operano centrifugamente nei suoi confronti. C'è una sorta di destino sociale a Kombach che impedisce ai suoi abitanti di emergere dal ghetto in cui la fame e la rassegnazione sembrano averli confinati; e c'è la certezza che la storia di classe si è costruita caparbiamente anche in questi poveri sussulti patologici che da sempre hanno opposto al potere la disperazione delle masse e la loro concreta determinazione a rompere il cerchio dell'emarginazione magari attraverso il gesto anarchico, irrazionale e alfine perdente. La storia di Kombach è la storia di sei personaggi ossessionati dalla idea di sfuggire alla povertà attraverso un furto. Siamo nella prima metà dell'ottocento. Da una parte sonnecchiano le prossime rivoluzioni nazional-borghesi, dall'altra dilaga il mitico sogno di una lontana terra felice chiamata America. Si vorrebbe partire, lasciare la Germania, volare oltre il mare verso una striscia di terra californiana di cui si dicono favole da paradiso terrestre: grano che cresce da solo, alberi carichi di frutta, lavoro, finalmente libero e felice.
La povera gente di Kombach sogna appunto la felicità, ma è una felicità niente affatto metafisica, qualcosa invece di puramente e giustamente materiale, tangibile: il piatto colmo sino all'orlo, la dispensa piena di cose per l'inverno, la schiena non più dolorosamente spezzata in due dalla fatica inumana dei campi. Il sogno della povera gente ha la durata di un lampo: per un giorno però è la felicità, il furto va in porto, il danaro viene diviso. Solo più tardi dopo un breve spazio di tempo che sembrerà un secolo, i criminali per fame verranno catturati e giustiziati in nome di Dio e della Proprietà.
La ricostruzione storica di Schlöndorff è esemplare per due motivi: perché scandisce le contrapposizioni di classe senza cedere alle tentazioni dell'affresco e del dramma; perché concede a quella realtà il ristretto ventaglio di possibilità politiche che oggettivamente le spetta. Tutto il contrario, insomma del tentato scavalcamento a sinistra di cui testimonia, tanto per fare un esempio, il Bronte di Florestano Vancini. L'irrazionalismo che muove i personaggi del Kombach è una delle dominanti dell'intero giovane cinema: dal Mathias Kneissl di Reinhard Hauff alla Spietata legge del ribelle ancora di Schlöndorff, dal Tatuaggio di Johannes Schaaf a Perché corre il signor R. Amok? di Fassbinder, e dal Mahlzeiten di Reitz sino allo sconvolgente Anche i nani hanno cominciato da piccoli di Herzog, si assiste a un paradossale carosello di situazioni prive di apparente spessore motivazionale. Segregati alla storia dalla melma dei ghetti borghesi, i personaggi dapprima sperduti o vagamente insoddisfatti o approssimativamente sovversivi, finiscono con uno scatto imprevedibile nel ristretto confine che separa la normalità dalla follia: i figli uccidono i padri, i poveri capeggiano una rivolta per vendicare il furto di un cavallo, il marito felice e tubante si suicida per un inconfessato desiderio di morte, i nani di una assurda comunità distruggono con furia incontrollabile gli oggetti e le forme che in qualche modo ricordano la vita. Un cosmo impazzito ruota vertiginoso attorno a queste insospettabili devastazioni psicologiche e morali. E dietro a tutto questo c'è ancora una volta l'ossessione della impossibilità a cambiare il mondo. Non si rinuncia alla lotta, ma non si spera minimamente di poterla condurre in porto. Dentro alla struttura sociale verniciata a nuovo, asettica, condizionata, immarcescibile, nell'illusione del Dovere e del Decoro, si annida dunque la follia della disperazione. Questa Germania, modello e chiesa dell'occidente europeo, è marcia. L'incremento tecnologico e la divisione del lavoro ne rappresentano i numi tutelari, gli avanguardismi di ieri e di oggi ne sostengono la decantata apertura democratica, la classe operaia stenta a ritrovare se stessa. Il sogno di un'ombra è in questo caso la rivoluzione.
Qualcuno ci crede ancora, qualcuno la tradisce sottilmente celandosi dietro il paravento del «tutto è perduto», qualcun altro vuole rimettere a posto le contraddizioni, rimpinzare anche l'irrazionalismo di propositi autograficanti in direzione del modello svedese: diamo tutto e non ci chiederanno più niente.
Ci crede, pur tra mille tremori e mille poetiche incertezze, Alexander Kluge. Il suo ultimo film Le occupazioni fortuite di una schiava, abbandona le perplessità degli artisti sotto la tenda del circo e si proietta decisamente in questa cattiva realtà asfissiata. La schiava è la donna tedesca attuale, schiava della presunzione maschile e del velleitarismo femminista, schiava della famiglia e della scuole, schiava infine delle comunicazioni di massa e della propria femminilità. La sua rivolta al sistema, mentre segna un passo in avanti del cinema di Kluge, propone una analisi illuminante di una delle fondamentali contraddizioni della civiltà occidentale. Il ruolo della donna e le sue ambigue prestazioni all'ordine sono osservate con il fervore analitico dello scienziato positivista da più di un film dell'ultima ondata.
Con opere sufficienti ma abbastanza scontate da parte di Reitz (Il viaggio a Vienna) e Verhoeven (Una stupenda inverosimile fuga) ma con acutezza assai maggiore nei film di Schlöndorff (La morale di Ruth Halbfass), di Fassbinder (Le lacrime amare di Petra von Kant) e di Lilienthal (La victoria) i personaggi femminili contribuiscono a spaccare verticalmente il guscio falso e mistificato dell'opulenza e del benessere tedesco occidentale per edificare piuttosto un universo drammatico, sia a livello generale sia a livello individuale. Il discorso sull'emarginazione ritorna qui con insospettato vigore, cosicché, dopo l'analisi delle segregazioni razziali e di classe affrontate da Gall in Come divenni negro o da Fassbinder in Katzelmacher o da Eisholz in Bruno il nero, dopo l'equivoco quadro dell'emarginazione da intolleranza e da gretto moralismo di provincia portato alla luce da Fleischmann in Scene di caccia in Bassa Baviera e da Brandner in Io ti amo, io ti uccido, si affronta ora il tema di quella più ostile diversità che la società borghese ha stabilito nei riguardi del ruolo femminile.
In questi film sfilano così donne assetate di vita e pronte per questo al compromesso e alla rinuncia a se stesse, donne di successo ammantate di sogni piccolo-borghesi e tentate dall'approccio omosessuale, donne che si schierano definitivamente sul fronte della lotta di classe e donne che mentre sembrano ricoprire il ruolo consueto di serve private in realtà ingannano il sistema contribuendo all'emancipazione della coscienza politica dei lavoratori, come accade per la protagonista del film di Kluge, la quale vende panini in un piccolo chiosco all'uscita della fabbrica ma li avvolge in volantini di propaganda politica e di invito all'azione organizzata.
Sulla sponda del conservatorismo, mascherato come sempre più spesso avviene da finta democrazia, stanno invece le opere minori, quelle apertamente commerciali, tipo commedia rosa, giallo di infima categoria o rimasticazione del western all'italiana e quelle di alcuni santoni del pianeta cinematografico Germania. Valga per tutti l'esempio di Bernhard Wicki, il cui ultimo film Il peso falso, da Joseph Roth, sposta astutamente l'accento dal fatto storico a quello strettamente personale e di Maximilian Schell, autore della operina Il pedone. Con questo prodotto di sconcertante ambiguità il cinema tedesco rischia di intraprendere la strada della giustificazione dei crimini e delle atrocità dell'ultima guerra per cui dopo la marea dei film incentrati sul «nessuno sapeva, tutti obbedivano», ora si cerca di dare a intendere che la responsabilità dei massacri fu generale, che il criterio di colpevolezza personale non può venire usato indiscriminatamente e che tutto il popolo tedesco ha la sua parte di colpa e la sua parte di pena. La generalizzazione idealistica è autograficante e autoconsolatoria.
Se il popolo tedesco è stanco della guerra, se il pubblico è stanco di vedersi rappresentato in uniforme, non per questo la dimensione astorica e equivoca di opere di questo tipo può essere invocata come nuova possibilità di ricostruire il passato. Il quale invece, come dimostra assai bene la contemporanea riflessione della poesia e della letteratura sul tema, resta oggettivamente il punto di riferimento essenziale per negare la guerra di ieri in favore della lotta di oggi.
La scarsa spettacolarità del film tedesco, dovuta in gran parte all'elevato numero di produzioni televisive, il suo gusto per una dialettica sostanzialmente illuminata e apparentemente arida, il suo rifiuto della grande cultura e delle grandi prospettive, l'intellettualismo che connota alcune delle sue figure più rappresentative il volontario disperdersi dello scatto drammatico in favore di situazioni che richiedono la riflessione prima della partecipazione, costituiscono i limiti concreti della sua tenue presa sul pubblico, oltre naturalmente ai due decenni di abbrutimento culturale cui esso è stato costretto dalla morsa del capitale statunitense. Dichiaratamente privi di un reale interesse per le problematiche inerenti al dibattito sul cinema politico come dovrebbe essere i cineasti tedeschi guardano piuttosto al cinema politico come è: cioè a un cinema che guarda indietro per quanto riguarda le coordinate culturali in cui si inscrive, Brecht, Benjamin, Adorno, e che invece si scarica aggressivamente sul presente e le sue infamie. Se i borghesi della RFT dichiarano «non abbiamo più ali, ma meno fastidi» (Rolf Heuer, Inventario) a essi rispondono, con il cinema, i registi della nuova generazione, impietosi e irriducibili, almeno finora, nella descrizione di quel tipo di padri da cui vengono oggi alla Germania le pene e la solitudine. In questa America senza Vietnam i grassi integrati consumatori sono gli stessi carnefici di una volta: «... meticolosi./ Nel preparare la lista/per le spese del sabato,/ la dichiarazione dei redditi/ e le deportazioni». (Ulf Miehe, Un tipo di padri).
Da Ombre Rosse n. 6 nuova serie, luglio 1974